sabato 23 novembre 2013

"Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza" di Luis Sepùlveda

Ho appena finito di leggere l'ultimo libro (pubblicato in Italia da Guanda) di Luis Sepùlveda, autore stranoto al grande pubblico. Si tratta di una storia che racchiude un'infinità di generi nel suo interno. E' senza dubbio una favola ma è anche un saggio, è un romanzo drammatico ma è anche narrativa per i più giovani. Insomma leggendo questo libro ho provato sensazioni forti e contrastanti.
La più evidente è senza dubbio quella che ti lascia a bocca aperta leggendo una storia di 85 pagine che è però incentrata sulla lentezza. In teoria le storie così brevi sono sempre molto intense, quasi accelerate. E questa in parte lo è. Salvo poi rallentare nei momenti importanti della storia quasi a sottolineare a) che i momenti delicati vanno affrontati con lentezza, b) che la lentezza, caratteristica della lumaca (protagonista della storia) è assolutamente vincente e non un handicap.
La storia in sé ha la struttura della favola, la protagonista è una lumaca senza nome e piena di domande. E' circondata da altre lumache che vivono nell'assoluta inconsapevolezza di quello che fanno e di quello che sono. Un giorno, la protagonista decide di capirci di più. Decide che per prima cosa vuole un nome e per seconda capire come mai quelle della sua specie siano così lente. Inizia insomma un processo simile a quello di tanti storici o giornalisti che non si fermano di fronte alla verità ufficiale ma ricercano, indagano, colgono le contraddizioni. Come per questi ricercatori molto spesso la strada è in salita anche per la lumaca curiosa iniziano le critiche. Le più anziane la accuseranno di essere pericolosa e sovversiva. Le più giovani saranno affascinate.
Nel suo viaggio alla ricerca della verità la lumaca, che nel frattempo assume il nome di Ribelle, incontra altri animali, una tartaruga e un gufo, che le insegneranno alcuni aspetti della vita e degli uomini. Da qui si evidenzia forte la differenza tra gli animali che collaborano tra loro, che resistono, che lottano e gli umani che cementificano e cementificano e inquinano e se ne fregano e vanno avanti anche a costo di fare male anche ai propri discendenti.
Ribelle resasi conto di tutto questo, grazie alla sua lentezza, grazie al fatto che ci mette una vita per camminare e muoversi, decide, anche mettendo a rischio la sua vita, di tornare nel gruppo (nonostante le critiche) e avvisare le colleghe di ciò che sta succedendo. 
Sarà una lotta contro il tempo, anche se lenta. Sarà una lotta impari. Ma il fatto stesso di lottare, di esserci, di decidere sarà una in sé una vittoria.

mercoledì 20 novembre 2013

"Tutti mi danno del bastardo" di Nick Hornby

Mi fa tremendamente incazzare Hornby. Lo aspetto per dei mesi, con ansia, conto i giorni che mi separano dall'uscita del suo ultimo libro e poi...mi ritrovo con un romanzo di neanche 100 pagine tra le mani. Mi manda in bestia. Le ultime due pubblicazioni "E' nata una star" (da cui credo sia stato tratto anche un film) e "Tutti mi danno del bastardo" sono davvero extra small. E non va bene.
Nick Hornby con "Tutto per una ragazza" e "Non buttiamoci giù", letti ormai anni fa, è diventato uno dei miei scrittori preferiti; per dirla con parole sue (tratte da "Alta fedeltà", romanzo-film anche questo) è entrato nella mia top ten.
Fatta questa premessa, "Tutti mi danno del bastardo" edito da Guanda (costo 9,00 euro) non ha affatto deluso le aspettative. Le storie che l'autore riesce ad inventare e a portare avanti sono non solo originali ma anche piacevoli e divertenti. Questo non significa che facciano parte di quella che possiamo chiamare lettura-soft, estiva per intenderci. Le sue avventure fanno riflettere, ti fanno incazzare, ti scuotono, ti fanno pensare. Poi ti fanno anche ridere. Ti fanno ridere di te stesso e dei personaggi. Ti fanno ridere dei difetti umani che sono anche i tuoi difetti.
Elaine, protagonista del racconto, fa la giornalista. Cura in particolare una rubrica in cui descrive il suo matrimonio con Charlie. Descrive le normali situazioni di coppia, le problematiche, le gioie, le sorprese. Tutto nella norma, insomma. Fin quando i due non decidono di fare il passo più difficile, quello della separazione.
Gli articolo ben presto diventeranno, come si dice in Italia, degli sputtanamenti. Il bastardo di cui inizierà a parlare la giornalista è proprio Charlie, e i lettori metteranno un secondo a capirlo. Lo capiscono i lettori distanti centinaia di chilometri dalla vita dell'uomo, ma, cosa ben più grave per la sua vita, lo capiscono anche i colleghi di lavoro, il suo capo, persino sua madre. Tutti sembrano da un giorno all'altro colpevolizzarlo, additarlo, criticarlo. Tutti sembrano, come succede in Italia, conoscerlo molto meglio di come possa conoscere lui se stesso. Tutti insomma lo identificano col bastardo.
Tutti tranne una persona, una donna che vive una situazione capovolta ma simile. Sarà questa combinazione a fare avvicinare i due, a renderli consapevoli della propria condizione. In un percorso fatto di sincerità e di complicità scopriranno il senso della situazione nella quale sono finiti.
La storia parallela si sviluppa mentre gli articoli della ex moglie e le invettive dell'ex marito continuano. Paradossalmente più Charlie riesce a mettere a fuoco la sua situazione e ad allontanarsi Elaine e a fregarsene degli articoli più questi diventano pesanti. Lo colpiscono nell'intimo, nella sfera sessuale, in quella morale. E tutto ciò mette anche a rischio il nuovo rapporto. Che, secondo me, diventa l'unica cosa a cui Charlie è intenzionato a dare importanza. Il marito della nuova amica di Charlie e la ex moglie di Charlie alzano il tiro, accusano, provocano, attaccano. E, come spesso accade, diventano vittime del loro stesso ruolo di carnefice.
Non mancheranno, e chi conosce lo stile di Hornby può capire, i riferimenti umoristici, paradossali, assurdi. Le frasi cariche di significato. I riferimenti alle virtù e ai vizi umani. Insomma non delude, né nei contenuti né nello stile. Solo purtroppo nella lunghezza.

mercoledì 13 novembre 2013

"Le compagne di Bobby Sands" di Silvia Calamati

Chi era Bobby Sands? Chi erano i suoi amici e i suoi sostenitori? Cosa ne sanno gli occidentali di quello che è accaduto nell'Irlanda del Nord occupata dagli inglesi?
Queste sono solamente alcune delle domande, complessissime, alle quali Silvia Calamati prova a rispondere nel suo libro "Le compagne di Bobby Sands" edito da Castelvecchi nel 2011. Devo ammetterlo, quando ho iniziato a leggere questo libro conoscevo a fondo la storia di Bobby Sands e del suo sacrificio, e le condizioni in cui erano costretti a vivere i repubblicani nel loro stesso paese. Ero a conoscenza del fatto che le versioni ufficiali erano molto diverse da ciò che in realtà succedeva in quei territori, e anzi molto spesso i media per fare prima tacevano, senza rischiare di compromettersi agli occhi del colosso britannico.
Ciò che non conoscevo, e ciò che il libro mi dona, sta in tutta una serie di storie parallele a quella di Bobby. Storie fatte di disperazione, di povertà, di paura. Storie di donne che sono costrette a difendersi a mani nude per strada, che aspettano da un momento all'altro la notizia dell'arresto o addirittura dell'omicidio del proprio figlio, che salutano i propri cari e sanno che quella potrebbe essere l'ultima.
Bobby rappresenta un simbolo per l'Irlanda del Nord, rappresenta il simbolo di chi non si piega, di chi non abbassa la testa e di chi lotta per i propri diritti. Ma rappresenta anche il simbolo della conoscenza; grazie a lui infatti tantissimi giovani e non giovani hanno potuto conoscere (anche se in maniera marginale) quello che stava accadendo in quei territori. Probabilmente senza di lui l'Irlanda del Nord sarebbe rimasta una terra non meglio identificata sulla cartina.
Quello che l'autrice fa, in questo libro, è un'ossessiva ricerca di materiale, testimonianze, documenti, tutti con il preciso scopo di fare luce su quanto accaduto in quegli anni. Non starò qui a elencarvi i particolari delle storie anche perché alcuni sono davvero di una crudezza spregevole, ma vi racconterò piuttosto del messaggio che lancia questo libro. Nelle interviste alle donne ascoltate dalla giornalista raramente c'è voglia di vendetta. Prevale piuttosto la voglia di pace, di futuro e di speranza. Anche chi ha perso il figlio o il marito o tutta la famiglia non è armata da quell'odio per cui la morte chiama morte. Quest'opera rappresenta tutta la dignità di un popolo che, per ragioni storico-politiche, si è trovato con una dominazione quasi coloniale, in un tempo in cui la maggior parte delle colonie sono crollate, a vivere in condizioni di guerriglia giornaliera, in un periodo di relativa pace, sotto il controllo in stile big-brother di un esercito militare spietato a crudele.
La voglia di libertà di un popolo che cozza contro gli interessi, enormi, economici, militari e geo-politici. Le compagne di Bobby Sands sono tutte quelle signore che hanno vissuto in prima linea questa guerra impari, che hanno difeso fino alla morte i propri figli, che sono finite anch'esse in galera con l'accusa di terrorismo sol perché non si piegavano al volere britannico, che hanno accompagnato fino alla fine i propri uomini con la speranza di conquistare un giorno la libertà. Il libro è pieno di interviste e testimonianze di donne che si sono dovute rassegnare all'idea che il proprio figlio o marito un giorno non sarebbe più tornato o nella migliore delle ipotesi sarebbe stato arrestato. E' pieno di storie in cui si evince come la falsità fosse diventata la strada maestra attraverso cui le accuse nei confronti dei repubblicani prendevano corpo e diventavano l'unica verità assoluta. Tutto ciò a discapito, ovviamente della verità. Ragazzi privati della libertà e condotti in carcere con accuse false, manomesse, grazie a depistaggi e a giudici corrotti.
L'Irlanda del Nord rappresentava per i repubblicani il più grande incubo che potesse vivere un popolo. Nel libro sono raccolte tantissime testimonianze che ci parlano di quest'incubo e che ci aprono gli occhi su come realmente sono andate le cose. Questa lettura mi lascia una sensazione di impotenza accompagnata da un disgusto per come i mass-media agiscano anche in un'epoca dominata, a parole, da democrazia e da sistemi tecnologici che permetterebbero la massima conoscenza degli eventi.