Conversando con una persona proveniente da un’altra parte del mondo, questa mattina me ne sono uscito con un “Sai perché non ti piace e non guarderai Sanremo? Perché non hai ancora capito gli italiani”.
In effetti, lungi da me redigere un manifesto d’amore per l’Italia
e gli italiani, credo che il Festival di Sanremo sia lo specchio di un paese e
dei suoi cittadini che magari non saranno il più bello e i migliori, ma
rappresentano comunque qualcosa di unico o, per dirla con meno enfasi, di
singolare.
È iniziata, dunque, la settimana di Sanremo e il freddo
polare di questi giorni, per un amante dell’estate, passa in secondo piano. Questa
mattina ho aperto Spotify e ho fatto partire la mia playlist storica di
Sanremo. Sì insomma ci sono. Sono pronto. Pronto a commentarlo, più o meno
seriamente, comodamente poggiato sul mio divano con una organizzazione alla
Fantozzi.
Sì c’è stato un tempo che non guardare Sanremo
mi faceva sentire ribelle. Poi decisi di non guardarlo solo quando non ci fosse
stato in gara il mio cantante preferito, infine mi sono convertito e ora non
posso fare a meno di guardarlo, chiunque sia in gara. Perché Sanremo è Sanremo,
come diceva una celebre sigla. Ma anche perché nel corso degli anni è cambiato, si è evoluto, è diventato altro, in parte. Sì, certo, anche io ho i miei gusti e alla
conduzione di Amadeus ho preferito di gran lunga quella di Baglioni, alle
battute di Fiorello preferirei di gran lunga la pubblicità, e
via discorrendo. Sono gusti. Bene così.
Ma il punto non è quello. Il punto è perché, come dicevo all’inizio,
Sanremo rappresenta gli italiani? E lo fa appieno? Perché gli italiani hanno
bisogno di un sistema bipolare. Sì, come quello elettorale. O di qua o di là. Gli
italiani hanno bisogno di schierarsi. Il fatto che poi, a gara terminata, salgano
sul carro del vincitore, quella poi è un argomento che tratteremo in un altro
post. Hanno bisogno di schierarsi, di scegliere, di dividersi. Su tutto. E le polemiche,
guarda caso (senza fare i complottisti), anticipano sempre puntualmente ogni
edizione del Festival. Ritengo che sia qualcosa di geniale.
E la polemica non è spicciola, anzi. È anche abbastanza
grossa. E allora, oltre a quelle classiche, gender, immigrazione, diritti civili,
crisi climatica, covid, quest’anno si è aggiunta la presenza di Zelensky. Una roba
che scotta. Insomma siamo in guerra, mica nella settimana del derby. Ora,
io non ho alcuna simpatia per questo o quel capo di stato impegnato in guerra,
ha molta simpatia per quei popoli che la guerra la subiscono, che muoiono sotto
le bombe, che perdono tutto, al di là delle ragioni del conflitto. Perché le
ragioni, se ci sono, non possono mai giustificare una bomba sopra una abitazione.
Detto questo, però, Zelensky è il capo di stato dell’Ucraina. Perché non
ascoltarlo, al di là delle legittime idee di tutti? Insomma abbiamo visto e
commentato per mesi il celebre tatuaggio a forma di farfalla di Belen che al di
là dell’appagamento più visivo che sessuale, non ha aggiunto nulla di più alla nostra
vita. Perché non ascoltare il capo di uno stato in guerra? Con tutti i se e con
tutti i ma del caso.
Ecco, la polemica Sanremese. Sta tutto là. Per questo capire
gli italiani aiuterebbe a capire Sanremo.
E poi c’è la musica. Mentre ascoltavo la playlist di cui
parlavo sono venute fuori tre canzoni, una più assurda delle altre. Ve ne
citerò solo una: “Gli altri siamo noi” di Umberto Tozzi. Ascoltatela, se non la
conoscete. Senza Sanremo non avremmo avuto questo capolavoro. Cazzo!
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